Mostra su Ettore Sordini, amico di Luciano Bianciardi

Dalla prefazione del catalogo

Bianciardi, Sordini e la chiusura del cerchio dell’arte

Con la mostra delle opere di Ettore Sordini si chiude in bellezza un cerchio virtuoso il cui inizio, tracciato un anno fa, è segnato dall’evento gemello, dedicato lo scorso gennaio a Furio Cavallini.

Un anno di grande senso per la Fondazione Luciano Bianciardi, impegnata nelle celebrazioni del Centenario del suo autore e animata dalla volontà di rappresentarne la personalità complessa, a tratti contraddittoria e sfuggente, altrove spregiudicatamente coerente, ma sempre inesauribile miniera di affondi inaspettati e di straordinarie loro rappresentazioni.

Tra le innumerevoli ipotesi di lavoro che una simile ricchezza porta con sé, la scelta della Fondazione è stata quella di iniziare e terminare l’anno bianciardiano con un’indagine attenta e mirata sulle relazioni intellettuali che hanno segnato la vicenda biografica e artistica dello scrittore, in particolare sui rapporti con il mondo della pittura, concentrandosi su due figure in particolare, Cavallini e Sordini, secondo un criterio fondato sulle citazioni presenti nella Vita agra, il romanzo più importante o comunque il più noto di Luciano Bianciardi.

Un criterio che ci permette di staccare i due personaggi dal ricco repertorio di riferimenti a figure, incontri, occasioni, desumibile dall’intera produzione del grossetano, che nella sua opera capolavoro, interpretando con rigore il canone del romanzesco, cela accuratamente sotto false identità le presenze riconducibili a persone reali, riducendole così a personaggi, ma chiama per nome i due amici: un segno inequivocabile che li colloca tra le figure di maggiore significato nella sua avventura intellettuale.

Si potrebbe avanzare un dubbio, a questo punto, sull’opportunità di iniziare dalle amicizie, per celebrare un personaggio, proprio in occasione di una ricorrenza tanto importante come quella del suo Centenario: la risposta sta tutta in una ben meditata scelta che la Fondazione Luciano Bianciardi ha assunto come cifra delle celebrazioni, ovvero quella di superare l’idea di “affrontare” l’autore, rimanendo in tal modo nell’ambito di un’interpretazione consolidata, accattivante ma nel complesso immobile, preferendo impegnarsi ad affiancarne il percorso di uomo e di artista, attraverso vie laterali, più inesplorate e in quanto tali più promettenti di scoperte interessanti, ai fini di una ricostruzione convincente del suo profilo complessivo.

Una visione nel profondo, attraverso una linea obliqua che tende comunque al soggetto della ricerca, apportando un contributo ricco e significativo, soprattutto in considerazione degli interessi che Luciano Bianciardi manifesta rispetto all’arte visiva, che per lui non è essenzialmente pittura, come per lo più avveniva nel momento storico in cui lo scrittore inizia la sua attività di letterato, ovvero negli anni dell’immediato dopoguerra, ma esplorata secondo la logica strettamente legata alla sua definizione, arte del vedere, che conduce a indagare tutto ciò che implica una riflessione derivante dallo sguardo. Cinema, fotografia, pittura stanno sullo stesso piano gerarchico per il giovane Bianciardi, che li avvicina con occhio spregiudicato e con l’interesse per le diverse forme di linguaggio che lo caratterizza. Questo atteggiamento non si modificherà nel corso del tempo, anzi rappresenta una sorta di imprinting che guida costantemente lo scrittore nella decifrazione della società che lo circonda e nel dialogo con le altre forme artistiche.

Ciò non significa che Bianciardi manovri con uguale sicurezza tutti i codici espressivi che incontra, ma qualche diffusa incertezza non gli impedisce di prendere posizione, collocandosi tra coloro che prediligono, in pittura, la tradizione figurativa, forte della consolidata accessibilità del linguaggio espressivo.

C’è una grande coerenza tra questa predilezione e le sue osservazioni su un’altra arte visiva, questa certamente più padroneggiata e capita, considerata come una sorta di simbolo della modernità positiva: il cinema.

E’ proprio a proposito del cinema che troviamo espressa un’estetica tutta imperniata sul concetto di arte democratica. Nel Lavoro culturale il protagonista scopre la meraviglia di un film che viene proiettato contemporaneamente a chi vive nella metropoli e a chi vive nella piccola città: “… La stessa opera si presentava contemporaneamente, ed esattamente uguale, a New York, a Kansas City, a Roma, a Milano e da noi… Il cinema era lo stesso dappertutto… E l’eccezionale, aggiungevamo, è che questo straordinario mezzo espressivo sia anche popolare: lo capiscono tutti, anche gli analfabeti…”

Diffidente verso le forme artistiche segnate dallo sperimentalismo che in quegli anni coincideva con l’astrattismo estremo, Bianciardi si attesta su posizioni vicine a quelle dei fotografi che popolano l’ambiente di Brera, il suo mondo di adozione a Milano.

Mulas e Dondero sono le figure di riferimento e Bianciardi compare spesso nei ricordi di questi maestri della fotografia, che stanno a suo fianco anche nelle collaborazioni giornalistiche, a partire da quelle più anticonformistiche.

E a proposito del culto della verità, così Mario Dondero commenta le sue collaborazioni a Le Ore, la rivista “per soli uomini” su cui scrive anche Bianciardi:“Fu lì che apprezzai la libertà del fotografo rispetto all’ansia e alla disciplina del giornalista, c’era anche una lieve componente artistica, e mi dissi: accidenti, che bello! Ma restai sempre fedele alla realtà più che all’arte”

Proprio la fedeltà alla realtà è dunque il collante che lega Bianciardi a tanti artisti del Giamaica e al tempo stesso segna l’adesione a un clima politico e culturale del tempo, cui la linea culturale del Pci forniva l’asse portante. Sono gli anni del dopoguerra e la volontà di ribadire i valori della liberazione dal fascismo e degli autori di quella liberazione è confermata nel sostegno all’arte neorealistica. Cinema, letteratura, pittura diventano i canali privilegiati per leggere un’Italia diversa da quella descritta dalla propaganda di regime, del tutto spogliata di retorica patriottarda e di trionfalismi.

Del resto, già dagli anni “provinciali” il messaggio bianciardiano risulta assai esplicito: “L’arte moderna si rivolge a un pubblico esiguo, selezionato e raffinatissimo, quasi una casta … il gran pubblico, si dice, va allo stadio, va al cinema e se ne contenta. Non possiamo qui dar torto al grande pubblico … se si vorrà tentare ancora una linea di contatto tra cultura e grande pubblico, bisognerà tentarla con cinema, coi cineclub, che sono un aspetto non trascurabile della nostra cultura postbellica”. (da Cultura e grande pubblico, Gazzetta di Livorno 1952).

Qui la definizione di arte moderna si lega all’astrattismo, totalmente rifiutato in nome di un’arte che tutti devono poter capire. Un giudizio assai tradizionalista, che torna a galla quando lo sguardo si sposta sull’amico Ettore Sordini, quest’ultimo decisamente collocato all’interno di un’avanguardia pittorica milanese che negli anni 50/60 ormai pensa all’europea, promuovendo percorsi sperimentali che si susseguono e mutano velocemente, allontanandosi in maniera definitiva dall’esperienza di un figurativismo ormai ridotto all’anacronismo culturale.

Ettore Sordini è l’Ettorino citato nel primo capitolo de La vita agra, ritratto nell’atteggiamento dell’artista in preda ai dubbi sul senso della propria arte. Famoso il passo che lo rappresenta: “Poi Ettorino ammutoliva, vuotava il suo bicchiere, e dopo un po’ attaccava a discorrere di pittura. “Tu dici che Dufy è un grande pittore. E va bene, Dufy è un grande pittore. Manet è un grande pittore, Monet è un grande pittore, Pissarro è un grande pittore, Cezanne è un grande pittore, Van Gogh è un grande pittore, Picasso è un grande pittore. Va bene, e poi? Poi cosa facciamo? Cosa faccio io? Ricominciare da più lontano, dici tu. Va bene, perché Mantegna è un grande pittore, Luini è un grande pittore, Caravaggio è un grande pittore… E poi? Poi cosa facciamo? Cosa faccio io?” E mi guardava, come se la risposta io la sapessi. Invece non la sapevo e lui riattaccava: “Allora, come si diceva Fattori è un grande pittore, Lega è un grande pittore, Signorini è un grande pittore…”. E non la finiva più, triste e opaco con tutte quelle elencazioni. […]”

La risposta il protagonista, qui alter ego di chi scrive, non ce l’ha e potremmo dire che non vuole avercela. L’autore mette il suo lettore di fronte alla domanda aperta: non condanna l’astrattismo del pittore, ma sospende il giudizio. E’ una prova di affetto e quasi di tenerezza nei confronti dell’amico, compagno di veglie collettive, una trovata brillante per sfumare la distanza estetica.

Nei dubbi di Ettorino, molto estranei alla loro stessa forma di tiritera insensata, piuttosto tracce di una ricerca costante, forse senza approdo, confluiscono le incertezze di Luciano, tradizionalista mai rigido, al tempo della Vita agra ancora appeso a quella speranza di liberazione che nel tempo lascerà il posto a uno scetticismo disilluso e sempre più cupo.

Con la mostra delle opere di Ettore Sordini si chiude il cerchio che ha come tema Bianciardi e l’arte visiva. Si chiude con un giudizio sospeso: è il segno della modernità, quella alla quale il pittore e lo scrittore appartengono.

Massimiliano Marcucci, Presidente Fondazione Luciano Bianciardi

Lucia Matergi, Direttrice Fondazione Luciano Bianciardi

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